Deterioramento cognitivo: qual è il percorso riabilitativo?

Davide Borghetti
Medico Chirurgo, Specialista in Neurologia
5 minuti
Il percorso neuroriabilitativo è volto a restituire un’adeguata autonomia e qualità della vita quotidiana a chi è soggetto a deterioramento cognitivo.
Sommario

    La redazione di Emianopsia ha il piacere di ospitare il Dott. Borghetti: laureato in Medicina e Chirurgia presso l’Università di Pisa, specializzato in Neurologia. Il Dott. Borghetti ci offrirà una panoramica su quelli che sono i princìpi della riabilitazione neurologica: percorso rivolto a chi presenta un deterioramento cognitivo.

    La neuroriabilitazione ha lo scopo di indirizzare il paziente verso un recupero da lesioni del sistema nervoso e da disturbi neurologici. Ci può illustrare dinamiche e meccanismi tramite i quali un percorso neuroriabilitativo può portare a un miglioramento del disturbo cognitivo del Paziente?

     “Il deterioramento cognitivo può rappresentare il risultato di un danno cerebrale acuto (traumatico, vascolare) o di un processo neurodegenerativo a evoluzione variabile. Si tratta di un disturbo capace di determinare profondi stravolgimenti e limitazioni nella vita di un Paziente, in quanto coinvolge la sfera personale, affettiva, relazionale e lavorativa.

    L’obiettivo principale di un qualsiasi intervento riabilitativo è dunque quello di favorire un recupero funzionale, ovvero restituire al Paziente un’adeguata autonomia e qualità di vita. La riabilitazione cognitiva è un approccio terapeutico mirato a migliorare tanto le funzioni cognitive, come ad esempio l’attenzione, la memoria, il problem solving, quanto quelle legate alla comunicazione e all’affettività.

    Può essere mirata sia al recupero delle funzioni perdute, se e quando possibile, oppure all’adozione di strategie compensatorie e soluzioni alternative alle limitazioni funzionali imposte dalla lesione (potenziamento delle funzioni residue).

    Gli interventi di riabilitazione cognitiva possono essere effettuati in una o più delle fasi che seguono l’insulto cerebrale, come ad esempio durante il ricovero, alla dimissione prima dell’invio a domicilio, o addirittura una volta tornati a casa. Questi possono essere effettuati in modo individuale, con i familiari o, ancora, in gruppo, con l’ausilio di professionisti del settore (riabilitatori, terapisti occupazionali, ecc.). L’approccio multidisciplinare è quello che solitamente restituisce i risultati migliori.

    Ci ha detto da cosa può scaturire il deterioramento cognitivo. Ma quali sono le patologie che più frequentemente vengono trattate nel campo della neurologia?

    Questa è una domanda interessante, anche se non è semplice restituire una risposta esaustiva. Diciamo che la frequenza delle patologie varia moltissimo in base alla fascia d’età. Nei giovani sono solitamente più frequenti le malattie demielinizzanti, le cefalee, i disturbi del sonno, mentre in età medio-avanzata saranno prevalenti le patologie neurodegenerative e cerebrovascolari. Si tratta di patologie che spesso, purtroppo, assumono delle caratteristiche croniche o invalidanti e che necessitano, pertanto, di un approccio particolare tanto nella diagnosi, quanto nel follow up e nel lungo percorso terapeutico.

    Una delle caratteristiche delle patologie neurologiche, inoltre, è che cause o eventi lesivi molto diversi tra loro (ad esempio un trauma, o una neoplasia) possono causare quadri clinici molto simili o addirittura indistinguibili tra loro. Fortunatamente oggi abbiamo a disposizione tecniche molto efficaci (come il neuroimaging) che ci permettono una più rapida e accurata diagnosi. Per il resto, esiste ancora molto da scoprire riguardo l’eziologia e la terapia di molte malattie e condizioni neurologiche.

    Può illustrare l’iter procedurale che porta a una diagnosi neurologica (ad esempio quali sono gli esami più frequenti volti a diagnosticare il tipo di deficit cognitivo)?

    Anche questo dipende molto dal tipo di patologia o da quale che viene ritenuta essere la causa più probabile di un certo disturbo. Negli ultimi decenni, comunque, sono stati fatti enormi passi avanti nel campo della diagnostica, con conquiste che hanno stravolto la naturale di molte malattie neurologiche e non.

    Come per qualsiasi disciplina medica, occorre innanzitutto raccogliere la storia del Paziente e delle sue problematiche passate e presenti (anamnesi). La clinica, come in tutte le discipline, è quella che guida la mente e la mano dell’operatore. Successivamente la scelta delle indagini da effettuare (dette di primo livello) varierà in funzione della sospetta sede di lesione, che nel caso delle malattie neurologiche potrebbe essere localizzata a livello del cervello, del midollo spinale, dei nervi e dei muscoli.

    Riguardo il sistema nervoso centrale, tra le metodiche di più largo impiego vi sono sicuramente quelle di neuroimaging (TC, RM), che permettono di avere informazioni morfostrutturali in tempi rapidi e con elevati livelli di sensibilità. Altre indagini, come l’elettroencefalogramma, i potenziali evocati o la scintigrafia, forniscono invece informazioni funzionali – ovvero ci informano su eventuali carenze nel funzionamento di uno o più circuiti.

    Nel caso di lesioni a carico dei nervi periferici e dei muscoli, invece, le indagini di primo livello saranno essenzialmente di tipo elettrofisiologico (come nel caso dell’elettromiografia e dello studio delle velocità di conduzioni) anche se in questo campo l’istologia e la biologia molecolare giocano un ruolo fondamentale nell’identificare patologie rare e nel distinguere la reale natura di quadri clinici anche molto simili tra loro.” 

    La recente emergenza sanitaria ha palesato l’impatto strategico che la telemedicina può avere sul nostro sistema sanitario: qual è il suo pensiero sugli approcci innovativi che la telemedicina si prefigge di rendere standard e consuetudine del sistema sanitario?

     “Personalmente sono un grande sostenitore della telemedicina, e questo tanto sul versante diagnostico quanto quello terapeutico. Sebbene non sia applicabile in modo indiscriminato, la possibilità di ridurre le distanze tra medico e paziente – sia in termini temporali che spaziali – può realmente avere un effetto positivo su un gran numero di persone.

    Indubbiamente è necessario prestare attenzione a tutta una serie di aspetti, come ad esempio quelli legati alla privacy, all’impossibilità di compiere una valutazione clinica adeguata, oppure ancora ai rischi legati a un abuso più o meno consapevole delle nuove tecnologie. I social media, la messaggistica istantanea, la telemedicina e, in generale, tutte le nuove tecnologie, racchiudono infatti un potenziale che non siamo ancora pronti a gestire pienamente.

    Ma avere la possibilità di fare dei piccoli aggiustamenti terapeutici, monitorare l’andamento di una terapia, identificare precocemente segni indicativi di un peggioramento o ancora – e più semplicemente – essere pronti lì, di supporto, per chi ne ha bisogno: a volte bastano poche parole di conforto. Senza considerare tutti i vantaggi legati alla dematerializzazione delle cartelle cliniche, cosa che offre – oltre a una migliore gestione dei dati – la possibilità di effettuare elaborazioni statistiche ed epidemiologiche o, nell’immediato futuro, l’addestramento di intelligenze artificiali.

    Un aspetto peculiare, infine, è rappresentato dalla possibilità di monitorare a distanza l’andamento delle terapie computerizzate, cosa che ad esempio avviene in alcune tecniche di neuroriabilitazione. Il paziente può così sottoporsi a protocolli terapeutici mirati anche a casa propria – quando e come può – senza la necessità di spostamenti. Ciascuna seduta viene seguita a distanza da specialisti che elaborano, in modo asincrono, i dati raccolti: questi saranno utilizzati per modulare le sedute successive in base ai risultati ottenuti e all’aderenza al percorso terapeutico.

    Ringraziamo il Dott. Borghetti per averci fornito questo approfondimento sul sul ruolo della neuroriabilitazione in caso di deterioramento cognitivo e patologie degenerative. Recupera la prima parte dell’intervista al dott. Borghetti Emianopsia bitemporale, omonima? Parla il neurologo.

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