L’altra metà del mondo: intervista a chi convive con l’emianopsia

Redazione Emianopsia
La redazione di Emianopsia
10 minuti
 
In questa intervista, Marco condivide la sua esperienza con coraggio e sincerità, raccontandosi senza riserve. Un invito a non arrendersi alla metà che manca, ma a riscoprire il valore di ogni frammento che resta.
Sommario

    Essere colpiti da emianopsia significa vedere improvvisamente il mondo a metà. Non solo nel senso più concreto del termine, ma anche nella percezione delle proprie capacità, dell’autonomia e del futuro.

    Dietro la freddezza di una diagnosi neurologica si nascondono esperienze profondamente umane, fatte di difficoltà quotidiane, adattamento e scoperta di nuove strategie per continuare a vivere con dignità e indipendenza.

    In questa intervista esclusiva, Marco (nome inventato per proteggere la sua privacy) ci parla del suo percorso. Racconta i primi giorni dopo l’evento neurologico e l’inizio della riabilitazione neuro-visiva. Condivide anche le sfide, le paure e i piccoli successi.

    Non è facile descrivere cosa significhi convivere con l’emianopsia, soprattutto se la diagnosi arriva all’improvviso, in un momento della vita in cui nulla lascia presagire un cambiamento così profondo.

    Marco ha scelto di condividere la propria esperienza con coraggio e sincerità, raccontandoci cosa significa vivere con un deficit del campo visivo. Perché affrontare il cambiamento richiede coraggio.

    Marco, quando e come hai scoperto di avere l’emianopsia?

    Avevo 38 anni ed avevo sempre goduto di una buona salute generale e una buona vista: i classici “dieci decimi”. Ero così estraneo ai disturbi visivi che pensavo che la qualità della vista si misurasse unicamente nell’abilità di vedere le classiche lettere da lontano.

    Iniziai ad avere fastidio con la luce del giorno, stare fuori in una giornata di sole senza gli occhiali da sole era una tortura. In quel periodo stavo finendo l’addestramento da pilota privato

    Usavo aeroplani leggeri in VFR, cioè volo a vista. In questo tipo di volo, gli occhi del pilota sono lo strumento principale. Non riuscivo a mantenere l’aeroplano in volo dritto. Per farlo, bisogna guardare davanti e fissare un punto; è importante usare la vista laterale per percepire la linea dell’orizzonte.

    Ero sempre in ritardo con le correzioni. Questo succedeva soprattutto in atterraggio. Lì si devono fare manovre rapide. Bisogna anticipare i movimenti del velivolo per mantenere la pista ferma nel parabrezza.

    Iniziavo ad avere fastidio nell’utilizzare il computer, mi dava noia la luce dello schermo. All’inizio pensai che il problema fosse dei nuovi monitor. Poi capii che il problema era più ampio. I colori apparivano blu e viola.

    Non riuscivo a capire la luminosità degli oggetti. Non sapevo se un oggetto avesse luce propria, come una spia luminosa, o se fosse solo un pallino rosso disegnato.

    I sintomi erano in continuo peggioramento e difficilmente descrivibili, specie da una persona come me fino ad allora totalmente avulsa dall’universo dei disturbi visivi.

    In realtà non avevo ancora capito di avere anche un’emianopsia. Non mi ero accorto che il mio campo visivo si era “ristretto”.

    Pensavo che la vista fosse solo “vedo/non vedo”, pertanto compensavo con quella che poi ho scoperto essere la PAC (Posizione Anomala del Capo).

    Anche in auto, per sorpassi o manovre, dovevo spostare spesso la testa. Questa abitudine può portare alla cinetosi: una sensazione di nausea, vertigini o disagio, comune in ambienti dinamici, soprattutto in aereo.

    Per chiarezza nelle risposte alle domande che seguono, ho sofferto di emianopsia secondaria, causata dalla compressione del chiasma ottico. La compressione è avvenuta a causa di un craniofaringioma al pedunculo ipofisiario. Questo è un raro tumore benigno del cervello che si forma vicino all’ipofisi, che regola molti ormoni.

    La mia condizione è stata quasi del tutto risolta con la chirurgia e l’ausilio di esercizi di riabilitazione neuro-visiva.

    Oltre all’emianopsia, ciò che vedevo era simile a quando premiamo gli occhi con la mano. Dopo un attimo, tutto appare distorto. Ci sono bagliori e colori innaturali. Questo effetto svanisce dopo qualche secondo. Nel mio caso, quella distorsione era diventata parte della mia quotidianità.

    Qual è stata la tua reazione iniziale alla diagnosi?

    Dopo una visita oculistica definita “nella norma con lievi alterazioni al campo visivo” mi fu suggerita una visita neurologica, anch’essa negativa. Nel dubbio, fu richiesta una risonanza magnetica che per fortuna venne eseguita in tempi rapidissimi da un TSRM (Tecnico Sanitario di Radiologia Medica) di grande esperienza che, resosi già conto durante l’esame che qualcosa non andava, eseguì numerose proiezioni aggiuntive, riuscendo a far refertare l’esame nelle ore successive.

    Dopo la chiamata che mi chiedeva di ritirare il referto, lo portai al mio medico di famiglia. Lui, senza giri di parole, mi convinse ad andare al pronto soccorso dell’Ospedale di Careggi. Questo è l’ospedale più vicino con il reparto di neurochirurgia.

    Di lì al poco, intorno al lettino delle visite, vidi comparire vari specialisti: neurologi, endocrinologi, i quali mi dissero che vi era una “ghiandola gonfia”. Dentro di me pensai: “Beh, sarà qualcosa che con un po’ di farmaci a casa si risolve. La mia condizione, a parte i disturbi visivi, non aveva dolore né problemi neurologici.

    Invece no, dopo poco mi ricoverarono in Neurochirurgia per intervenire chirurgicamente su un craniofaringioma ipofisario che comprimeva il chiasma ottico. L’intervento sarebbe avvenuto dal naso (via transnasale-transfenoidale) e i neurochirurghi mi tranquillizzarono dicendomi che questo tipo di accesso avrebbe facilitato il decorso.

    Premetto che allora non sapevo cosa fosse l’ipofisi. Ora posso dire che si trova alla base del cervello, dietro il naso. È grande come un cece e controlla l’attività endocrina di tutto il corpo. Questo include la tiroide, le ghiandole surrenali e i testicoli.

    Puoi raccontarci il percorso che ti ha portato a comprendere meglio la tua condizione?

    Sono stato aiutato dall’affetto dei miei cari e dalla mia ignoranza. Ho capito solo dopo l’intervento che era un tumore cerebrale. Era benigno, ma il suo comportamento era incerto.

    Ricordo il momento incredibile in cui, di notte, ero solo nel lettino. Nel silenzio del reparto, ho riaperto gli occhi dopo l’intervento.

    Fuori dalla finestra vi era un grande albero. Ero in ospedale da un paio di giorni ma non sapevo che tipo di albero fosse. Lo vedevo solo come una massa verde.

    E invece, riaprendo gli occhi nello stesso letto dopo l’intervento, al buio della notte illuminata dalla luna e dai lampioni, vidi chiaramente che si trattava di un pino, con i suoi aghi verdi che brillavano anche con la penombra della notte e che distinguevo nitidamente.

    Rivedevo i colori! Alzai lo sguardo e alla parete vi era un televisore spento con un pallino adesivo rosso: vedevo il rosso! Vedevo che non era una spia rossa, era proprio un pallino di carta adesivo.

    Passai tutta la notte, ancora con gli effetti della sedazione, ad ammirare lo spettacolo della vista “in alta definizione” e dell’alba fuori della finestra.

    Che ruolo hanno avuto i professionisti sanitari nel tuo percorso?

    Ovviamente fondamentale, anche se all’inizio ho notato troppa distanza fra oculisti e neurologi. È stato inoltre difficile descrivere all’inizio il disturbo visivo che veniva etichettato come “non meglio precisato e di non chiara natura”.

    La diagnosi di emianopsia è stata accurata e tempestiva?

    Né tempestiva e né accurata. Il problema principale che ho riscontrato è che, a differenza di un esame di imaging, dove il paziente rimane passivo, l’emianopsia si diagnostica essenzialmente eseguendo un campo visivo dove però il paziente ha un ruolo attivo.

    Non avendone mai eseguito uno, le prima volte l’ho eseguito sicuramente in modo non corretto falsandone i risultati.

    Hai ricevuto consigli utili e supporto continuativo?

    All’inizio no: le cure sono partite in un modo “effettivo” solo dopo la risonanza magnetica.

    Purtroppo, si tratta di “patologia rara” e dai sintomi inusuali, per cui i medici sono ricorsi a terapie empiriche prima di riuscire a definire il quadro con precisione.

    Nel mio percorso, ho capito quanto sia importante che il paziente riconosca la sua condizione e la descriva con termini medici chiari ogni volta che viene visitato da uno specialista.

    Bisogna essere dettagliati, ma non troppo lunghi. Inoltre, è utile fornire una scala di miglioramento o peggioramento rispetto ad altri punti di riferimento.

    Ti hanno proposto una riabilitazione visiva o altri percorsi di riabilitazione?

    Soltanto una volta, mentre stavo rieseguendo il campo visivo prima dell’intervento ho scambiato qualche parola con un’ortottica.

    Ricordo che avendo poca mobilità oculare, ed essendo seduto all’apparecchio del campo visivo, più in basso rispetto a quest’ultima e dunque impossibilitato a guardarla in volto, lessi sulla sua divisa “ORTOTTICA” e le chiesi in cosa consistesse il suo mestiere. Lei mi spiegò brevemente e mi disse che sicuramente avrei avuto necessità di riabilitazione neuro-visiva da quel tipo di specialista dopo l’intervento.

    Rimossi quella conversazione, subissato da tutte le altre visite e da un successivo ricovero, fino a quando un amico non mi fece notare il mio strabismo, che prima non avevo.

    Mi ricordai allora di quella persona e cercai un consulto online. Trovai un gruppo di due professioniste ortottiche, della Sicilia, che accettarono di eseguire delle sessioni di riabilitazione visiva da remoto, che poi si sono rivelate essere state abbastanza efficaci, mediante l’uso di webcam e materiale grafico autoprodotto. D’altronde non avrei avuto tempo e costanza di recarmi in ambulatorio.

    Ho scoperto che il cervello è una macchina meravigliosa, capace di adattarsi e trovare rimedi talvolta senza nemmeno accorgersene. Ho paradossalmente capito cosa avevo perso quando ho iniziato a riacquistarlo dopo l’intervento e grazie agli esercizi ortottici.

    Quali strategie utilizzi per compensare la perdita del campo visivo?

    Muovere la testa (posizione anomala del capo) ed utilizzare di più il tatto, in modo inconsapevole perché è stata una condizione progressiva. Il fatto di usare il tatto mi è rimasto ancora oggi: mi accorgo che faccio delle cose senza guardare. Ad esempio, collegare una spina ad una presa nell’angolo, perché credo che sia inutile tentare di guardare in quel punto, anche se, ad oggi, guardandoci ci vedrei bene e impiegherei meno tempo.

    Come affronti i rischi per la tua sicurezza a causa della visione ridotta?

    Fortunatamente ho riacquistato un campo visivo soddisfacente, permane una piccola area in basso. Praticamente, se in posizione eretta muovo le mani all’altezza della cintura non riesco a percepire il movimento. Non riscontro attualmente situazioni dove avverto rischi particolari.

    Come la tua famiglia, gli amici e i colleghi hanno reagito e ti hanno supportato?

    Oltre all’affetto e alla vicinanza, indovinando gli oggetti di cui avevo bisogno in ospedale (dalle spremute, ai piccoli oggetti come le ciabatte adatte per fare la doccia ecc.).

    Senza che io li chiedessi, poiché ero stato velocemente catapultato in una condizione molto distante dal mio modo di vivere passato

    Come mantieni una mentalità positiva e resiliente ogni giorno?

    La vita che avevo prima mi piaceva e volevo tornarci il prima possibile e ho capito che nonostante tutto, con la giusta dose di fortuna e di “pratica” è una condizione gestibile. Anche l’assunzione dei farmaci non mi pesa molto, poiché in un certo senso consentono di raggiungere una qualità della vita che avevo ormai perso da diversi anni o che forse (parlando di squilibrio ormonale) non avevo mai avuto.

    Che consiglio dai a chi si trova ad affrontare l’emianopsia?

    Descrivi bene i sintomi, trova i termini medici appropriati e riferiscili con precisione.

    Devi capire che la vista non è “vedo non vedo” ma “come” vedo. Prova a stabilire dei punti fermi. Ad esempio, seduto in un punto preciso della stanza cerca di guardare un oggetto senza muovere la testa e controlla i miglioramenti giorno dopo giorno. Infine, riferisci tutto al professionista sanitario.

    Chi deve curarci non è “dentro la mente del paziente” e ha bisogno di dati e riferimenti certi per poter monitorare la terapia in corso.

    Quali miglioramenti vorresti vedere nel sistema sanitario e sociale per chi convive con l’emianopsia?

    Prevedere la riabilitazione neuro-visiva al pari della riabilitazione motoria e soprattutto sensibilizzare pazienti e parenti sul fatto che si tratta di una “scienza esatta” al pari delle altre, senza demonizzarla come fosse un supporto improvvisato.

    Vorrei sensibilizzare gli organi del Servizio Sanitario sull’importanza che riveste, visto che talvolta può fare la differenza fra un’invalidità (e dunque un carico sociale) e una vita normale socialmente utile e attiva.

    Vuoi condividere altro della tua esperienza?

    Sì, la mia condizione non solo non era emersa dal primo campo visivo e nemmeno dalle tavole di Ishihara (quelle con i numeri dentro ai cerchi di puntini colorati), ma si traduceva soprattutto in un rallentamento ideatorio e un difficilmente spiegabile rallentamento della visione.

    Per fare un esempio, un soggetto normovedente che cammina in un marciapiede è in grado di riconoscere “con la coda dell’occhio” e in una frazione di secondo se la persona che ci viene in contro è un giovane o un anziano, magari conosciuto. Nel mio caso, questa operazione richiedeva 5-6 secondi.

    Inoltre, qualche conoscente, incuriosito dai miei esercizi ortottici mi chiese di spiegare in cosa consistessero con delle dimostrazioni. Chiedendo loro di ripeterli ho notato in diverse persone difficoltà anche importanti negli esercizi di fissazione, di movimento oculare e inseguimento.

    La sensazione è che i disturbi visivi siano in realtà molto più diffusi di quanto si pensi e, probabilmente, causa di incidenti e infortuni non monitorati.

    Si pensi ad un soggetto che soffre di emianopsia che guida l’auto o svolge lavori con macchine operatrici in coordinamento con altri colleghi.

    Quando la vista cambia, cambia tutto

    Questa storia ci ricorda che dietro ogni diagnosi c’è una persona, con sogni, paure, ostacoli e battaglie quotidiane. L’emianopsia non è solo un termine clinico: è una realtà che cambia il modo di vedere il mondo, nel senso più profondo del termine.

    Eppure, come ci ha mostrato Marco, anche quando la vista si spezza, la vita può ritrovare un suo equilibrio. Fatto di adattamenti, nuove abitudini, ma anche di speranza, affetti, e scelte consapevoli.

    Grazie ad esperienze come questa possiamo costruire una maggiore comprensione, sensibilizzare chi ancora ignora la portata di questi disturbi e rafforzare quel filo sottile che unisce chi cura e chi vive ogni giorno con una condizione neurologica.

    Oggi, grazie alla riabilitazione neuro-visiva, anche a distanza, esistono percorsi mirati che possono migliorare concretamente la qualità della vita.

    Informarsi e cercare uno specialista può fare la differenza tra convivere con un deficit visivo e l’imparare ad affrontarlo attivamente, con strumenti e obiettivi chiari e realistici.

    A chi si trova oggi ad affrontare l’emianopsia, vogliamo dire: non siete soli. Ogni storia come questa è un invito a non arrendersi mai alla metà che manca, ma a valorizzare ogni frammento che resta.

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